Viticoltura e vino a San Severo

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Viticoltura e vino a San Severo:
Brevi cenni storici

Capitolo 1 della Tesi di Laurea
SAN SEVERO E IL VINO: analisi di un mercato
CIRO GRAVINA
Corso di Laurea in Economia Aziendale
Facoltà di Economia
Università degli Studi del Molise
a.a. 2003-2004

L’agro di San Severo è situato nella parte nord del Tavoliere della Puglia, confina ad ovest con il Subappenino Dauno e ad est con il promontorio del Gargano, nelle vicinanze del Mar Adriatico e del lago di Lesina.
Il territorio di San Severo si estende da Nord a Sud su un’area pianeggiante, la cui altezza è in media di 80-90 metri sul livello del mare.
Il clima è di tipo caldo-arido, con una media di precipitazioni piovose di circa 450 millimetri annui (in Italia la media è di 688,38 mm)[1]; è caldo d’estate e relativamente mite d’inverno. La zona, però, è colpita frequentemente da gelate primaverili, generate da ritorni di freddo, determinati da venti nordici.

provincia capitanata

I terreni sono per la massima estensione di tipo sabbioso-siliceo, sabbioso-calcareo e argilloso-siliceo; sono profondi e di buona permeabilità, oltre che dotati di molti elementi nutritivi e di discreta fertilità.
In questo ambiente ha trovato terreno fertile la viticoltura, sia con la definizione e trasformazione dell’agro, della proprietà terriera e degli operatori agricoli, sia con le specie di viti e con le tecniche di coltivazione e di allevamento.
Sul primo versante, graduale è stato il passaggio dal latifondismo, che privilegiava la proprietà terriera con il pascolo e la cerealicoltura, alla piccola proprietà, che ha investito sulla forza lavoro ed ha attivato la coltivazione intensiva, con l’introduzione ed il rafforzamento della vite e dell’ulivo.
Già nell’800, secondo i catasti provvisori, la superficie coltivata a vite di San Severo era di 774 versure[2], pari ad ettari 955,50, e nel solo primo ventennio è quasi raddoppiata: nel 1824 erano circa 1200 le versure vitate, pari a 1481,4 ettari, detenute principalmente da piccolo e medi possessori.
La totalità della produzione di uve era utilizzata esclusivamente dalla popolazione urbana, che per molti anni non è riuscita ad apprezzarne il valore della qualità del prodotto e le potenzialità del mercato, anche per la mancanza di strade di comunicazione.

Nel 1845 “la città di San Severo popolata da diciassettemila abitanti […] non ha che due sole industrie, quella cioè de’ cereali, e quella del vino […] e le vigne sono venute ad occupare circa milleduecento versure di territorio intorno all’abitato, o vogliansi dire millequattrocento moggi legali[3], con il passaggio dei pascoli, di proprietà della Chiesa, all’abitato.
Intorno al 1866 i vigneti di San Severo raggiunsero i 925,28 ettari e dopo tale data continuarono ad aumentare per effetto di vendite di terreni di enti religiosi, ad opera della legge del 7 luglio 1866. Con l’applicazione della citata legge si affermarono due distinte categorie di proprietari terrieri: i versurieri, che detenevano oltre una versura per vigna, ed i mazzocchi, che ne detenevano una superficie minore, denominata pezza.
Nel 1868, scriveva il Fraccacreta, i viticoltori che “posseggono da 1/2 ettaro a 5 sono 3.675 e a loro appartengono 9.034 ettari su 32.510 quanta è la complessiva estensione del territorio comunale “[4].

Con lo sviluppo dei terreni impiantati a vigneto fu attivato anche un successivo utilizzo e sviluppo dei prodotti agricoli. Le vinacce, fino a quel momento considerate un prodotto di scarto, furono utilizzate da giovani napoletani, che crearono a San Severo diversi impianti di distillazione, lavorando un prodotto gratuitamente ceduto: le vinacce scartate. Ne seguì la creazione, da parte di viticoltori sanseveresi, di una Società che realizzò una distilleria in località Tontillo, attuale via don Minzoni, il cui pregiato prodotto fu attestato dalla Gazzetta di Torino, che in concomitanza della Esposizione vinicola di Asti del 1898 scriveva: “dobbiamo ora spendere parole di vivissima lode e di vero compiacimento per la collezione di liquori inviata dalla coraggiosa e intelligente Società di viticoltori di San Severo, la quale vede giornalmente affollato il suo banco di osservatori, che lodano altamente non solo la sua intraprendenza, degna invero di essere imitata, ma la bontà e la squisitezza dei suoi preparati, ai quali non è più sconosciuta la via dell’esportazione…”.

pubblicità anni 1950

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In tutto il Meridione vi fu un arresto dello sviluppo della viticoltura, per la rottura dei trattati di commercio italo-francesi da parte della Francia. La viticoltura sanseverese sopravvisse grazie ai propri sistemi di allevamento, che fornivano vini bianchi leggeri esportati in Svizzera e direttamente immessi al consumo.
A causa del crescente aumento di richiesta di vino bianco da parte dell’impero austro-ungarico, parecchi vitigni impiantati ad uva nera furono trasformati in vitigni ad uva bianca. Froio riferisce che “i vini di San Severo erano esportati in grande quantità in Francia e in Austria, le richieste erano tali che non potevano essere soddisfatte per esaurimento del prodotto, nonostante nuovi vigneti fossero impiantati”[5].

Lo sviluppo della viticoltura in San Severo e la qualità dei suoi vini furono “premiati” con la scelta di istituire nel paese una Cantina Sperimentale. Dal verbale del Consiglio Comunale del 27 giugno 1882 si apprende quanto segue: “Il Presidente dà lettura d’una nota dell’Ill.mo Sig. Prefetto colla quale annunzia che la Provincia à assegnato al Comune il sussidio di L. 100 per le spese d’impianto della Cantina Sperimentale, ed un annuo sussidio di L. 120 per quattro anni a condizione che questa Cantina Sperimentale si presti alla confezione dei vini allo esperimento di uve provenienti dagl’industriosi delle diverse parti della provincia, che siano adottati nella vinificazione i veri mezzi dettati dalla scienza, e che infine il direttore assuma l’obbligo di pubblicare un bollettino per l’andamento ed i risultamenti ottenuti dalla medesima”[6].

Anche la pubblicazione del ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, edita nel 1896: “…dopo l’applicazione della clausola della nazione più preferita, con l’Austria- Ungheria prima e con la Germania poi, la produzione enologica di San Severo, assume rilevante importanza commerciale, per la grande esportazione che si fa verso quegli imperi”[7].
Anche la distruzione della viticoltura francese ad opera della filossera giovò allo sviluppo della viticoltura locale. Il giornale locale “Il Foglietto”, il 23 febbraio 1899 afferma che nel 1898 1.500 versure di seminativi e di oliveti, erano state trasformate in vigneti.
Secondo Labadessa: “I prezzi dei vini e la bontà dei raccolti compensavano in due anni ogni sacrificio; ad ogni contadino era aperta la via di diventare piccolo proprietario”.
Questa nuova situazione favorì un’immigrazione non solo di contadini e piccoli imprenditori, ma anche di marinai ed operai che passarono l’Ofanto, in cerca di terre da coltivare a vigna. Una testimonianza del fenomeno è stata offerta da Garofalo nel 1900, quando scrisse che: “i vigneti di San Severo sono senza dubbio i più produttivi che io abbia mai visto in Italia ed i più ben coltivati nel Mezzogiorno […] danno una produzione media di 80 hl di vino per ettaro e costituiscono la ricchezza del paese. San Severo, per i suoi vigneti, è la più ricca città della Puglia e vi si nota più immigrazione che emigrazione”[8].

La viticoltura sanseverese subì gravi danni, ad opera della filossera, nei cinque anni che precedettero la prima guerra mondiale; solo intorno al 1920-1930 fu avviata una sua ricostruzione, con innesti su piede americano e sviluppo dell’allevamento a spalliera, che soppiantò il tradizionale alberello, “molto ravvicinato, trovandosene fino a 11.700 per ettaro, e l’alberello veniva potato con 2 speroni, di cui uno a 2 gemme ed uno a 3 gemme”[9].
A partire dal 1919-1920 la superficie vitata subì notevoli incrementi dovuti alle cessioni, da parte di enti e della chiesa, di terreni o in enfiteusi, con diritto di riscatto, o in fitto ventinovennale a miglioria e con l’obbligo di trasformazione in vigneto-oliveto. I terreni dati in concessione erano suddivisi in quote di mezza versura.
I notevoli incrementi realizzati con la ricostruzione avviata non furono sufficienti al recupero della storica superficie vitata; la zona di San Severo rimase, comunque, la seconda zona vinicola della Capitanata, per qualità e quantità.
Nel 1951-52, con la riforma agraria, l’Ente di riforma fondiaria assegnò 3.500 ha, espropriati a grossi proprietari, a 450 braccianti.

Parallelamente ai processi storici descritti e che hanno consentito l’affermarsi della viticoltura locale, un ruolo certamente importante è svolto da due momenti significativi sul piano della qualità: il 1932, quando il “vino San Severo” fu riconosciuto, ai sensi della legge 10/07/1930 n. 1164, ” vino tipico ” ed il suo territorio delimitato, per D.M. 29/03/1932, all’agro di San Severo con l’aggiunta di 2.162 ha facenti capo ai comuni di Torremaggiore, San Paolo di Civitate ed Apricena e quando l’entrata in vigore della legge 3/2/1963 n. 116 e del D.P.R. 12/07/1963 n. 930 assegnò al vino San Severo, sia bianco che rosso, la denominazione d’origine controllata (D.O.C.). Il vino di San Severo divenne il primo tra i vini pugliesi ed il ventiseiesimo tra quelli italiani ad essere riconosciuto con tale denominazione.
L’ambito territoriale che consentiva la produzione del D.O.C. San Severo è rappresentato nella figura che segue:

Il disciplinare della produzione D.O.C., approvato con D.P.R. 19/04/1968, prevedeva anche le principali caratteristiche dei vini, così riassunte:

La legge n. 1138 del 18 febbraio del 1970 costituì una rivoluzione nell’assetto della proprietà terriera, disponendo che tutti i contratti di fitto ventinovennale fossero trasformati in contratti di enfiteusi e trasformando la figura del bracciante nullatenente in quella del viticoltore piccolo proprietario.
L’evoluzione della superficie vitata, che interessa il territorio del vino San Severo, è qui definita nel grafico.

Lo sviluppo vitivinicolo del secolo scorso non ha investito, però, solo l’ampliamento della superficie vitata, ma anche i sistemi di allevamento e la base ampelografica.
I vitigni coltivati nell’agro sono in maggioranza vitigni ad uva bianca, circa il 93%; il restante 7% è destinato alla produzione di uva nera. Attualmente, per le vigenti disposizioni, i vigneti debbono essere impiantati esclusivamente con i vitigni raccomandati o autorizzati[10].

“La forma di allevamento principale nell’agro era costituita dall’alberello “sanseverese”, alla latina (ovvero l’alberello con o senza un tralcio lungo che serve da sfogatoio) con due speroni disposti ad orecchio di lepre, il più basso munito di due gemme ed il più alto con tre”[11].
Inizialmente la sistemazione delle piante formava un quadrato e le piante erano allevate a “pagliarelli”, richiedenti una lavorazione esclusivamente a braccia. Successivamente, per con-sentire l’impiego dell’aratro, le piante furono disposte in filari o spalliere, denominate tradizionalmente a controspalliera o tesa, per favorire l’utilizzo della meccanizzazione.La distanza tra i ceppi, inizialmente di 120-130 cm. tra le fila e di 80 cm. sulla fila, passò a 250 cm. tra le file e 150 cm. tra i ceppi.” I sostegni erano costituiti da paletti di castagno intervallati di 7-8 metri e da due tratti di ferro zincato “[12].
Per ridurre le spese, alcuni agricoltori sostituirono i sostegni di castagno, utilizzati per singole annate, con pali di cemento alti 250 cm. forniti di un foro posto a 160 cm. , utilizzato per il filo portante, e altri tre fori, distanziati gli uni dagli altri di 30 cm. I fili di ferro, passando attraverso questi ultimi fori, formano un reticolo attraverso il quale va a sistemarsi la vegetazione d’annata.

Tale sistema elimina le spese di legatura dei tralci e riduce sensibilmente i costi di produzione.
Recentemente, per far fronte alla meccanizzazione ed allo sviluppo economico delle aziende operanti nel settore, le tradizionali forme di allevamento della vite hanno visto la comparsa di nuove tecniche, di alta e media altezza, più ricche di gemme e di tralci a frutto, come il “tendone”, adottato soprattutto per le uve da tavola.

La tecnica di coltivazione della vite nell’agro del San Severo è tra le più precise. I lavori al terreno sono numerosi: più incisivi quelli autunno-invernali, per consentire una maggior conservazione delle acque piovane, più superficiali quelli estivi, per limitare l’evaporazione e la perdita di umidità, oltre che per eliminare le erbe “nocive”.
Le piante subiscono una doppia potatura, una invernale, eseguita nelle “Calende di Natale” e una estiva.
L’uso di pesticidi antiparassitari è accurato e garantisce la vinificazione di uve sane, generatrici di una buona qualità di produzioni vinicole.

Nell’agro di San Severo, molteplici sono le tipologie di vitigni impiantati, ma quello di maggior rilievo, sia quali-quantitativo che storico, è il Bombino bianco.
Il Bombino è uno dei vitigni più diffusi in Italia, con una sua presenza in 77 province, con una superficie complessiva di circa 12.000 ettari. Il suo rilievo, però, si ravvisa solo nel Lazio, nelle province di Teramo e Chieti, in Molise, nelle province di Potenza, di Bari e di Foggia. Nella provincia di Foggia è particolarmente consistente la sua presenza, visto che il Bombino è presente su 3.200 ettari di vigneti specializzati, quasi esclusivamente localizzati nella zona di produzione del “San Severo D.O.C.”
Il Bombino, come risulta da alcuni scritti, ha molteplici sinonimi, come Colatammurro, Bommino, Bambino peloso, Buon-vino, ecc…
Secondo Molon, “l’ampeleografia italiana (1875) riporta un’interpretazione molto fantastica del nome Bombino dato a questo vitigno; deriverebbe dal fatto che il grappolo suo rassomiglia grossolanamente ad un bambino colle braccia distese. Ancora più strana è la denominazione Buonvino data a questo vitigno, mentre esso è da sempre vino scadente”[13].
Di parere diverso sembrerebbe, invece, Cavazza, secondo cui “Il Bombino bianco è uva delle più produttive, e dove ragioni commerciali non hanno imposto la coltivazione di uve nere, egli ha tenuto il primo posto […]. Si usa per uva da tavola, ma per lo più serve per vino, che riesce chiaro, non molto sapido, ottimo per la preparazione del vermouth”.
A quale autore dare parere favorevole non è cosa semplice, anche se è da ricordare che, per la produzione del vino D.O.C., il vitigno utilizzato in gran percentuale è proprio il Bombino, insieme con il Trebbiano.
A conferma della buona qualità e dell’importanza del vino San Severo, non solo nel territorio nazionale, possono essere riportate le seguenti dichiarazioni di Mattia: “Il San Severo bianco è ottenuto con una tecnica di vinificazione generalmente molto accurata, è di un bel colore paglierino chiaro tendente al verdolino, di sapore apprezzato sui mercati di consumo nazionali ed ha alimentato importanti correnti di esportazione verso la Francia, la Svizzera e la Germania, sostenendo la rinomanza che ha acquisito e che gli ha consentito di entrare a far parte ufficialmente della categoria dei vini pregiati “[14] e di Montanari: “Bel vino paglierino chiaro, limpidissimo, brillante, di sapore neutro, vellutato […] scende piacevolmente nello stomaco e rinfresca la gola lasciando la bocca buona”[15].

Il territorio del “San Severo” vanta la presenza di numerose imprese, tra centri di Raccolta e Cantine, sviluppatisi a partire dagli anni ’60 ed in sostituzione della diffusa e consolidata prassi delle piccole cantine private, ubicate sotto le case per civili abitazioni dei coltivatori della terra e costituenti un ricco patrimonio ipogeo, certamente da riscoprire e rivalutare. A fine anni ottanta del secolo scorso erano censiste più di cinquecento cantine ipogee situate nel centro storico e nell’area circostante al “giro esterno” della Città sviluppatasi tra il 1800 e il 1900. Un ruolo importante è stato svolto e continua a svolgere il movimento cooperativo, presente sul territorio con quattro grandi cantine sociali, che da sole raccolgono e lavorano quasi 2.000.000 di q.li di uva all’anno, pari a circa 1.640.000 ettolitri.
Non vanno dimenticate le aziende private, sia di trasformazione che commerciali, tra cui spiccano la cantina “D’Alfonso del Sordo” , “Di Capua” e d’Araprì; la prima, nota azienda della zona, sia per capienza che per qualità di prodotto, essenzialmente D.O.C., è riuscita a creare un’attiva rete commerciale non solo nazionale, mentre d’Araprì produce spumante metodo classico utilizzando il bombino bianco..
Nel 1978, a circa 1,5 km. dal centro abitato, è stato istituito e realizzato dall’Ente Sviluppo di Puglia, dietro incarico del ministero dell’Agricoltura e Foreste, uno stabilimento per il deposito dei vini di San Severo, di rilievo pubblico e a carico dello Stato, oggi semiabbandonato e spesso affittato.
Il mercato enologo non rappresenta solo il passato, ma soprattutto il futuro dell’economia del circondario di San Severo. Il processo di rinascita ha bisogno di ulteriori spinte, umane ed economiche, che possono e devono trovarsi nella comunità. San Severo ha bisogno di riappropriarsi del patrimonio vitivinicolo nelle colture e nella tecnica, quel patrimonio che gli interventi degli anni ’70 hanno in parte depauperato, con l’inserimento delle uve da tavola e di coltivazioni che hanno privilegiato la quantità e non la tradizionale qualità. C’è bisogno di conquistare il mercato non più da “grossisti del vino”, vendendolo ad operatori che hanno sempre usato il “San Severo” per “tagliare” ed “arricchire” i vini curati nella qualità, ma da saggi ed avveduti produttori, capaci di qualificare nel mercato quanto la “natura” e la “storia” ci hanno lasciato e continuano a darci.

Note
1: Dato ottenuto mediante una media delle precipitazioni registrate nelle diverse stazioni metereologiche segnalate sull’Annuario Statistico Italiano del 2001, pag.19 tav. 1.4
2: Una versura = 12.345 metri quadrati.
3: Da un verbale della seduta del 6/4/1845 del Decurionato.
4: A. Fraccacreta, “Le Forme del progresso economico in capitanata“, Napoli, 1912.
5: D. Froio, “Relazione sui lavori della cantina sperimentale di San Severo dal Settembre 1882 all’agosto 1883, Barletta l884.”
6: U. Pilla e V. Russi, “San Severo nei secoli“, Cromografia Dotoli, San Severo 1984.
7: R. Labadessa, “Tavoliere di Puglia“, Roma 1933.
8: S. Garofano, “Le vigne di San Severo“, San Severo 1900.
9: M. Vitagliano, “Storia del vino in Puglia” Ed. Laterza, 1985.
10: Vedere Reg. Comunità Europee n. 816/70 del 28/4/1970, integrato con quello n. 1160/76 del 24/05/1976.
11: A. Dell’ Aquila, “La viticoltura ed il vino nella zona di San Severo“, Grafsud 1976.
12: A. Dell’ Aquila, “La viticoltura ed il vino nella zona di San Severo“, Grafsud 1976.
13: G. Molon, “Ampleografia“, Milano 1906.
14: M. Mattia, “Viticoltura ed enologia dell’ Italia Meridionale” « Agricoltura», 1966.
15: V. Montanari, “Parliamo di Vino“, Vicenza 1942.

Capitolo 1 della Tesi di Laurea : SAN SEVERO E IL VINO: analisi di un mercatoCIRO GRAVINA
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