Pasteur e il vino

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Pasteur e il vino
Il suo nome è associato alla tecnica per eliminare i microrganismi del latte, ma il grande chimico francese si occupò soltanto di vino e birra.

Recentemente il tema della pastorizzazione del latte è tornato alla ribalta a causa di alcune infezioni trasmesse, pare, da latte crudo non pastorizzato.
Il trattamento, che deve il suo nome a Louis Pasteur, brillante chimico francese e uno dei fondatori della moderna microbiologia, consiste nel portare un alimento ad alta temperatura per un breve periodo di tempo in modo da eliminare microrganismi patogeni o comunque indesiderati che altrimenti potrebbero proliferare e creare problemi sanitari o alterare le qualità organolettiche. Il latte, per esempio, viene scaldato tipicamente a 71,7 gradi Celsius per 15 secondi. Il termine «pastorizzare» è stato coniato, un po’ immodestamente, da Pasteur stesso, che chiese anche un brevetto sul procedimento. Tuttavia il chimico francese non era interessato al latte, e non applicò mai la sua tecnica all’alimento che oggi associamo al suo nome. Si interessò invece al vino e, successivamente, alla birra.
Nel 1863 l’Imperatore Napoleone III chiese a Pasteur di occuparsi delle «malattie del vino». Nel corso del 19° secolo il consumo di vino e di alcolici in Francia aumentò considerevolmente, in parte, paradossalmente, anche per le precarie condizioni igieniche in cui versava l’acqua. Si sapeva ormai che l’acqua, specialmente nelle aree urbane, poteva trasmettere delle malattie e quindi veniva considerato più ”igienico” bene birra o vino.
Da vari anni però, a fronte di una produzione aumentata, i produttori francesi di vino lamentavano notevoli perdite, soprattutto nel vino esportato, dovute a cause ignote: a volte il vino diventava molto acido, altre volte amaro, oppure oleoso. Addirittura poteva perdere sapore da risultare come annacquato. Un produttore di vino di buona qualità di Monpellier, colpito da questa malattia, venne addirittura accusato di aver tagliato il vino con l’acqua.
Pasteur accettò l’incarico e, per meglio studiare il problema, allestì un laboratorio dotato di microscopi e incubatori ad Arbois, in una regione che produceva vino, in modo da essere vicino alle cantine e poter osservare tutto il processo produttivo. Addirittura comperò una piccola vigna per meglio studiare il problema. All’epoca la produzione di vino era considerata un’arte, ed era opinione comune dei produttori che non avesse nulla a che fare con la scienza: si trattava solo di trovare un “equilibrio tra lo zucchero e i fermenti”.
Pasteur ebbe l’intuizione che il deterioramento del vino potesse avere delle cause esterne: identificò, grazie al microscopio, un fungo che chiamò “fiore dell’aceto”. Distinse due fasi nella maturazione del vino: nella prima agiva il “fiore del vino”, necessario alla vinificazione (la fase, diremmo noi, in cui lo zucchero si trasforma in alcool), mentre nella seconda agiva il “fiore dell’aceto” rendendo acido il vino (noi diremmo che l’alcol etilico si ossida a acido acetico).
All’epoca la produzione di vino era considerata un’arte, ed era opinione comune dei produttori che non avesse nulla a che fare con la scienza. Dopo tre estati passate ad Arbois ad analizzare vino e uva Pasteur riuscì a venire a capo del problema delle molteplici malattie del vino, identificando funghi e batteri responsabili dei vari tipi di deterioramento e comprendendo meglio l’importante azione dell’ossigeno sulla maturazione del vino.
Imbottigliò del vino senza lasciare aria nella bottiglia. Quando venne stappato, l’anno successivo, Pasteur annotò
“Questi vini, invecchiati di un anno, hanno lo stesso colore del vino nuovo da cui sono partiti, lo stesso colore verde e lo stesso sapore aspro del vino giovane, e anche l’odore e il sapore del lievito. In breve, mi pare che non siano per nulla invecchiati. Al contrario, il vino trattato nella maniera solita ha iniziato a invecchiare”
L’ossigenazione quindi aiutava a invecchiare il vino, ma non si doveva esagerare o il vino ne sarebbe stato danneggiato. Identificò il fungo responsabile della “malattia grassa”, in cui il vino bianco diventava oleoso, proveniente solitamente da alcuni grappoli marciti e mescolati agli altri. Con il suo microscopio identificò anche i microorganismi responsabili delle altre malattie.
Trovate le cause, Pasteur passò a cercare i rimedi. In passato, per prevenire il deterioramento, si era provato a congelare il vino prima di imbarcarlo per lunghi viaggi, per esempio verso San Francisco, ma l’espediente funzionò solo parzialmente. Decenni prima, Nicolas Appert aveva già suggerito di usare il calore, mediante bollitura, per preservare gli alimenti, ed erano noti i metodi di produzione spagnoli e greci che bollivano il mosto o il vino. Pasteur suggerì quindi ai produttori di riscaldare il vino per pochi secondi, in assenza di aria, a una temperatura tra i 60 e i 100 gradi Celsius.
Il suggerimento fu immediatamente criticato, accusato di far perdere al vino il suo bouquet, il suo aroma complesso. Da buon scienziato, Pasteur istituì un comitato di esperti degustatori, per confrontare in modo controllato l’aroma del vino pastorizzato con quello «crudo». Gli esperti gli diedero ragione, e persino la rivista del settore, il «Moniteur viticole», i cui redattori erano ostili allo scienziato, dovette ammettere che la pastorizzazione non alterava il sapore del vino. Per dimostrare l’efficacia del suo trattamento spedì del vino pastorizzato sulla fregata Sybille verso l’Africa. Il vino arrivò inalterato.
I risultati degli studi di Pasteur furono pubblicati nel suo trattato Études sur le vin del 1866. In seguito, Pasteur applicò le sue scoperte alla produzione della birra, brevettando un procedimento di produzione. Il processo di pastorizzazione del vino si diffuse rapidamente anche in Italia, in Lombardia e in Friuli. Oggi però il vino viene prodotto solitamente utilizzando altre tecniche microbiologiche di controllo.