Nino Casiglio

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Nino Casiglio, scrittore ed intellettuale, è nato a San Severo il 28 maggio 1921. Laureato in Lettere e in Filosofia, ha insegnato per molti anni, prima di diventare preside del locale liceo scientifico. Si è spento nella sua città natale il 16 novembre 1995, a 74 anni.
Casiglio aveva una formazione di stampo classico: si laureò prima in filosofia a Roma con Pantaleo Carabellese, e successivamente in lettere classiche con Gino Funaioli. Conosceva bene gli autori greci, latini ed italiani; fu anche socio corrispondente della prestigiosa «Accademia Pontaniana» di Napoli.
Casiglio ha lasciato un segno profondo della sua operosità intellettuale a livello pugliese. Di lui ricordiamo in particolare i quattro romanzi, che gli hanno permesso di ottenere importanti riconoscimenti, come il Premio Napoli, nel 1977. L’esordio assoluto è rappresentato dal romanzo Il conservatore, edito dalla Vallecchi di Firenze nel 1972. Era la sua confessione di uomo, il suo messaggio ideale affidato alla narrativa. Nei panni del protagonista, l’economista Gaetano Specchia, c’era un intellettuale che si chiedeva come fosse possibile fare realmente del bene, aiutare il prossimo, al di là delle parole e dei condizionamenti ideologici. Alla fin fine, gli uomini, in un contesto negativo, in una realtà piena di difetti e di carenze, non hanno che la loro testimonianza concreta per affermare il bene. L’economista Specchia sceglie questa strada, pur sapendo quanto sia difficile, e vi resta fedele fino alla fine. “Il conservatore” è la storia di un uomo serio, onesto, inquadrata sullo sfondo di un Meridione nel quale la scena resta sempre saldamente nelle mani dei furbi. E’ un’opera con una lezione amara, s’intende, ma con degli sprazzi incantevoli, densi di una sottile e penetrante malinconia. Specchia perde per gli altri, i furbi, i voltagabbana, gli ipocriti, ma vince la vittoria della coerenza. Nel 1977 è la volta di “Acqua e sale”, edito dalla Rusconi di Milano, che segnò il vertice del suo successo, con il Premio Napoli. E’ la storia di Donato Marzotta, contadino del Sud alle prese con una realtà dominata dalla miseria e dall’ingiustizia. Egli si batte per un mondo migliore, conoscendo anche l’esilio alle isole Tremiti, durante il Ventennio fascista, ma nel dopoguerra si trova costretto amaramente a confessare che è cambiato quel che doveva restare, mentre è rimasto quel che doveva cambiare. Il mutamento, insomma, non ha prodotto una società più giusta, né più colta, malgrado l’apparenza. Nel Meridione, in particolare, l’unica risposta è stata l’emigrazione, che ha eliminato il surplus di manodopera, senza però realizzare un vero sviluppo dell’agricoltura. Alla fine, insomma, il bilancio del protagonista è amaro, come la sua morte, nelle pagine d’epilogo.
Nel 1980 è la volta de “La strada francesca”, edito dalla Rusconi, un tuffo nel Seicento del Sud, un’opera filosofico-picaresca di non facile lettura. Al fondo, Casiglio pone l’idea di mutamento, sottolinea come le cose cambino con diversa velocità, lasciando in piedi realtà ed istituzioni seicentesche che in apparenza sembrano scomparse da tempo. Il mutamento, inoltre, oltre che privo di uniformità, non è necessariamente rivolto al bene, al meglio, con buona pace dello storicismo. Il protagonista del romanzo, un innominato picaro, segue nel suo cammino attraverso l’Italia centro-meridionale lo zio Alano, costretto alla fuga per evitare problemi con l’inquisizione cattolica. E’ un viaggio denso di sorprese e di eventi, in un Seicento che per molti versi è vicino al Novecento. Alla fine, la lezione batte sull’importanza dei buoni, di coloro che fanno con onestà il loro dovere, che esistono, anche se non fanno rumore. Senza di loro il mondo sarebbe peggiore di quello che è. “La strada francesca” è un romanzo difficile, che sconcertò i lettori attratti dall’apparente facilità di “Acqua e sale”, anche se al fondo si riallaccia alle tematiche già espresse nei romanzi precedenti. Non è, insomma, il libro da leggere prima di addormentarsi. Più accessibile è senza dubbio “la dama forestiera”, sempre per i tipi della Rusconi, del 1983, in cui viene ricostruita, con la libertà consentita ad un narratore, la storia del lascito dell’ultimo principe di San Severo, Michele di Sangro, che affidò alla sua compagna, Elisa Croghan (Craig, nell’opera), il compito di realizzare l’arduo obiettivo di promuovere lo sviluppo dell’agricoltura nella nostra realtà. E’ un romanzo gradevole e delicato, che pone l’accento sul tema del possesso della terra, sul desiderio che ha guidato gli sforzi dei nostri avi, per poi essere sostituito dal mito della fabbrica e del benessere al Nord. Anche in questo caso, la lezione che si ricava è amara. Il romanzo possiede, inoltre, una sua vena malinconica, un senso della fine che lo scrittore prestava ai personaggi, ed in particolare al principe di Sangro. Alcune pagine, poi, presentano delle incantevoli descrizioni della terra pugliese. Si tratta di quattro romanzi, come si vede, diversi e insieme legati dalla stessa visione del mondo, che hanno segnato il cammino artistico di Casiglio. Il tempo non ha tolto nulla al fascino di questi romanzi, ai quali vanni aggiunti anche i racconti, sia quelli uniti in volume ne “La chiave smarrita”, apparso nel 1987, per i tipi di “Cittadella Est” di San marco in Lamis (FG), sia quelli rimasti estravaganti e fatti conoscere in seguito da Francesco Giuliani nella monografia “Nino Casiglio. La lezione sbagliata” (Felice Miranda Editore, San Severo, 1996)