DAL SETTECENTO ALL’OTTOCENTO – La vitivinicoltura pugliese mostra segnali di progresso: In Capitanata

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DAL SETTECENTO ALL’OTTOCENTO – La vitivinicoltura pugliese mostra segnali di progresso: In Capitanata

Nella provincia di Capitanata il centro vitivinicolo più importante all’epoca era Cerignola, per l’opera illuminata di due illustri agricoltori, Pavoncelli e La Rochefoucauld, i quali realizzarono una serie di stabilimenti enologici che, per dotazione di attrezzature meccaniche, per capacità lavorativa, per direzione tecnica, erano quanto di più moderno esistesse allora nel settore. La casa Pavoncelli fin dal 1854 “quando rara era la vigna in Capitanata” realizzò “per esperimento” 60 ettari di vigneto “affidandone la metà a contadini ed altrettanta tenendo per proprio conto”. Per l’allevamento della vite «si fu costretti dal clima adusto ad accettare un sistema che già si praticava in Asia e nella Grecia stessa, tenendo cioè il ceppo basso, isolato e in riga, sistema che i romani dicevano “humilis sine adminiculo” (basso senza sostegno) e che oggi nella regione si riconosce col nome di vigna a sistema latino (…).

Lotta alla prenospera nei vigneti di Capitanata

Dei vitigni fu preferito quello indigeno: Uva di Troia, varietà robusta, resistente alla siccità ed abbastanza produttiva; dà vino da taglio, di forte alcolicità ed aspro al gusto». A distanza di qualche anno, gli iniziali 60 ettari di vigneto superarono i 2.500, di cui una limitata aliquota la casa Pavoncelli tenne in conduzione diretta “da coltivarsi razionalmente e da servire di modello”, mentre la più gran parte l’affidò a 1.100 contadini “con un contratto cosiddetto a miglioria (…) allo scopo non tanto della miglior coltura del terreno proprio, quanto quello di spingere i contadini ad ogni possibile progresso, col maggior beneficio ed incremento di tutta la contrada; fu perciò, che l’iniziativa fu accompagnata da istituzioni eminentemente sociali ed economiche, come la scuola di agricoltura, la cooperativa di consumo e quella bancaria (…). Con lo svilupparsi del vigneto s’impose il bisogno di cantine” per cui “fu necessità farsi una educazione enologica, come se n’era fatta una viticola (…). Il contado di Cerignola è nella zona producente vino da taglio, da 13 a 14 gradi normalmente, da 15 a 16 rare volte, ricco di estratto secco (da 40 a 50 g/l) e di colore intenso. Non si poté quindi nel primo tempo sfuggire alla necessità di produrne a preferenza tanto più che era tale qualità la più facilmente vendibile. Ma poi le cose mutarono ed, oltre al vino da taglio, s’incominciarono a preparare qualità speciali di vino. Quello da diretto consumo fu una delle preoccupazioni più insistenti. Se ne fa di circa 12 gradi ed anche meno, con costanza di tipo, che lo rende bene accetto ai numerosi clienti, tra i quali si annoverano molte cooperative italiane ed estere. La Ditta Pavoncelli è stata la prima in Puglia a commerciare il vino detto dai francesi rosè e schiller dai tedeschi; e la sua marca ne ha il primato nei paesi d’importazione. È un vino crudo, ottenuto con la separazione diretta del mosto dalla vinaccia prima della fermentazione (…). La vinificazione delle uve bianche ha dato ottimi risultati; il bianco S. Stefano e Torre Giulia, di bel colore ambrato, con 11 gradi, al massimo 11,5 di alcol, è vino che riceve buone acco¬glienze ovunque, e che ha meritato le apparenze di lusso, essendo venduto in bottiglie (…). Tutte le cure che si hanno, assidue e scrupolose per la coltivazione della vigna, per la vinificazione e per la conservazione dei vini, fecero ottenere la grande medaglia d’oro alla casa Pavoncelli nel concorso fra le aziende vinarie del Regno, bandito nel 1891 dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio” (Pavoncelli, 1907).

Preparazione per la spedizione vino nell'azienda Pavoncelli

La vitivinicoltura cerignolana, come si è detto, si avvantaggiò anche dell’opera di un’altra grande famiglia, i La Rochefoucauld, più precisamente di Sosthnes de la Rochefoucauld, duca di Doudeauville e di Bisaccia che, entrato in possesso dell’azienda di Cerignola della superficie di 4.800 ettari nel 1893, a seguito della morte del fratello Stanislao, ritenne opportuno coltivarla direttamente a seguito della grave crisi economica determinata dalla rottura delle relazioni commerciali con la Francia (1887), crisi che raggiunse il culmine nel 1892, che fu l’annata più disastrosa per il mondo viti-vinicolo italiano e in particolare pugliese.
Per rendere l’idea della gravità della crisi si rammenta che all’atto della rottura del trattato, da una settimana all’altra, il prezzo del vino crollò dalle 50 lire a sole 5-6 lire per hl, con l’aggravante che “i proprietari dei vigneti, grandi e piccoli, non seppero più cosa farsene di quest’unico tipo di vino da taglio che, per maggiore iattura, essi non sapevano curare, nè conservare, non avendo mai appreso nessuna nozione, per quanto elementare, di cose enologiche, abituati, com’erano, a vendere i loro prodotti ancora allo stato di mosto” (Millet G., 1902).
Nell’azienda La Rochefoucauld la superficie destinata a vigna fu di 3.000 ettari, di cui circa 2.000 in coltura specializzata ed i rimanenti in consociazione con l’olivo. Le viti erano piantate ad 1 metro di distanza l’una dall’altra, allevate secondo il sistema latino, cioè ad alberello, ognuna delle quali portava due speroni, ciascuno a due gemme franche. La produzione di uva era di 55-65 q/ha, per un totale annuo aziendale di 170-200 mila quintali di uva, che erano vinificati in ben 11 stabilimenti vinicoli fra i quali i più importanti erano quelli di Quarto, S. Ferdinando, S. Cassaniello e Casalini, nei quali si ammostavano ben 6.000 quintali di uva al giorno, e Barletta, che fungeva da deposito per il vino destinato all’esportazione.

Azienda La Rochefoucauld

Per evidenziare la complessità e la modernità di organizzazione dell’insieme industriale della casa ducale di La Rochefoucauld si rammenta che, oltre alle macchine e agli attrezzi necessari, gli 11 stabilimenti enologici disponevano di 2 tinoni in legno da hl 700 ciascuno e di 3 grandi botti, pure in legno, comunicanti fra loro, della capacità complessiva di 1.000 hl per deposito di vino e per preparare masse e tagli; di 1.658 botti da 50 a 150 hl; di 6.000 fusti di rovere e di castagno di hl 5,5 per trasporto di vino e per la fermentazione tumultuosa dei mosti durante i periodi di caldo eccessivo; di 51 pompe da travaso, azionate a mano e a vapore, e di 2,5 km di tubi di gomma.
Il grande merito della casa La Rochefoucauld non poggiò solo sull’iniziativa di creare nuovi “sbocchi al vino sia in Italia che all’estero e scegliendo dappertutto degli abili rappresentanti di grande competenza, e conoscitori della clientela locale dei grossi centri di consumo”, ma, altresì, di “modificare il sistema di coltura tenuto sin allora; difatti, taluni vigneti piantati in terreni freschi e fertili, furono concimati e potati molto generosamente, in modo da produrre vini leggeri, che, come per esempio esportati nella Svizzera, sono direttamente messi in consumo, quali vini da pasto. Altri vigneti furono innestati con vitigni bianchi, per far fronte alle continue e crescenti richieste dei mercati Austro-Ungarici, che da alcuni anni fanno un largo consumo di vini bianchi pugliesi. I vecchi vigneti al contrario, e specialmente quelli piantati sugli altopiani, si ebbero una puta molto rigorosa, per avervi vini alcolici, e della più alta gradazione possibile (…). Tanto lavoro e tanti sforzi furono immediatamente coronati da ottimo successo, e difatti per la Casa Ducale non vi è stato giammai pletora o “mèvente” (svendita) della sua grande produzione vinicola”.
Oggi, mentre il complesso vitivinicolo realizzato da Pavoncelli è praticamente scomparso, quello dei La Rochefoucauld continua a svolgere lodevole attività nel settore vitivinicolo ad opera dei successori, i Cirillo Farrusi; infatti, un ramo di questa famiglia produce e immette al consumo una gamma di vini di pregio fra i quali il portabandiera è il noto Torre Quarto, rosso.
Vigneti a Casel del MonteMa con la rottura delle relazioni commerciali tra Francia e Italia, la vitivinicoltura pugliese conobbe il periodo più oscuro della sua storia tanto che, a causa del bassissimo prezzo di mercato del vino, da 3 a 5 lire per hl, e malgrado la grande povertà delle nostre campagne, quasi tutta l’uva della vendemmia 1891 marcì sulla pianta. Né la concessione di premi all’esportazione, né le agevolazioni fiscali sulla distillazione arrecarono un qualche sollievo alla crisi che si protrasse fino al 1894, quando cioè l’Italia concluse trattati com¬merciali con la Germania prima e poi con l’Austria-Ungheria, nei quali erano previste clausole di favore per i vini rossi da taglio.
La vitivinicoltura italiana, in particolare quella barese, ebbe così un decennio di tranquillità. “In questo periodo si verificò nella zona di Castel del Monte un’ulteriore diffusione di vitigni a grappolo nero, in particolare di Uva di Troia e Lagrima, da cui si ottenevano ottimi vini da taglio, noti in commercio sotto il nome generico di vino di Barletta”.