L'ATTIVITÀ ENOLOGICA A SAN SEVERO TRA
'800 E '900
di Vittorio Russi
Capitolo I
I primordi
Recenti scoperte archeologiche ci dimostrano quanto sia antica la produzione di vino nella Daunia e le fotografie aeree evidenziano tracce di vigneti di età romana anche nei dintorni di San Severo, come presso la masseria Scoppa, dove le viti risultano impiantate col sistema ad alberello, in file di buche scavate nella
"crusta", metodo ancora usato da noi fino ai primi decenni del
'900.
Per l'epoca medioevale abbiamo scarse notizie sull'esistenza di vigneti. Nell'aprile del 1116
l'abate Adenolfo di S. Pietro di Terra Maggiore (odierna Torremaggiore) promulga gli statuti rurali che regolano i rapporti con gli abitanti del nostro territorio, dipendenti da quel monastero benedettino. Tra l'altro, vi è stabilito che non si paga la
"piazza" per esportare il vino fuori dai confini, ma chiunque possiede una vigna deve dare ai monaci sei quartare di vino per ogni
pezza.[1]
Particolarmente interessante è anche un documento redatto in San Severo nell'aprile del 1301, nel quale il giudice Roberto de Barrachia e il notaio Guglielmo Fasanellus riportano un lungo elenco di nostri concittadini, i quali, insieme ad
alcuni abitanti dei vicini casali di Torremaggiore e Plantiliano, rivendicano dei crediti verso il figlio di Carlo II d'Angiò, Filippo principe di Taranto, per la fornitura di varie derrate in occasione di un suo soggiorno nella
zona.[2]
Nella descrizione dei prodotti ceduti e del loro costo, si possono distinguere tre diversi tipi di vino; oltre a quello più comune, denominato
pro tinello, c'è una qualità definita de miliori, mentre più costoso appare il vino
pro militibus, evidentemente destinato ai soldati di scorta.
Esaminando questo elenco di quasi duecento nominativi, si nota che la maggior parte dei fornitori fa parte di un ceto medio, con numerosi artigiani, due
mercanti, uno speziario, quattro giudici, un notaio, tre diaconi e un arciprete. Le quantità vendute si aggirano in media sulle
tre quattro salme, divise in quartare, ma troviamo anche un
magister Franciscus che ha fornito de miliori vino salm. 14 et quart.
14.[3] È evidente che in questo periodo, come nei quattro secoli successivi, i vigneti sono pochi e il vino venduto rappresenta, con qualche eccezione, un
surplus di quello prodotto per uso familiare. Nell'elenco figura in due casi accanto al nome l'appellativo di
mercator, ma non sappiamo se si tratta specificatamente di commercianti di vino.
In un documento riguardante le decime spettanti nel 1535 alla parrocchia di S. Severino troviamo elencati 76 vigneti, situati per la maggior parte nelle località Carrobba e Belvedere; si tratta di piccoli appezzamenti, per i quali vengono pagate somme esigue, in genere uno o due tarì, ma si distingue un Salvatore De Maio
tassato per tre ducati.[4] Inoltre, nello stesso elenco compaiono ventinove parrocchiani, diversi dai primi, che debbono dare in totale alla chiesa 217
"cannate" di vino.[5]
Non abbiamo i dati riguardanti le altre tre parrocchie, S. Nicola, S. Maria e S. Giovanni, ma la situazione non doveva essere molto diversa.
Quando, verso la fine del XVI secolo, San Severo diviene feudo della famiglia Di Sangro, molte famiglie ragguardevoli preferiscono abbandonare la città per altri centri della Capitanata liberi da vincoli feudali, come Foggia, Manfredonia e
particolarmente Lucera, dove vengono trasferiti i tribunali della Regia Udienza Provinciale. Ciò determina anche una drastica diminuzione di quel ceto di professionisti e medi proprietari terrieri che avrebbe potuto maggiormente dedicarsi a colture alternative a quella cerealicola, prerogativa dei latifondi nobiliari ed ecclesiastici.
Le usurpazioni riducono poi gradualmente l'estensione del demanio
comunale[6], mentre buona parte del nostro territorio è da tempo assoggettata alla
Regia Dogana delle Pecore e adibita quasi esclusivamente al pascolo delle greggi dei
pastori transumanti; rimane, così, ben poco spazio per i vigneti. Inoltre, il disastroso
terremoto del 30 luglio 1627 e
l'epidemia di peste del 1656 decimano la
popolazione e rendono ancora più precaria l'economia della nostra città.
Solo dopo la compilazione del Catasto
onciario, voluto da Carlo III di
Borbone verso la metà del XVIII secolo, conosciamo qualcosa in più sulla coltivazione della vite in agro di San Severo. In questo registro fiscale, ora in corso di
pubblicazione, sono menzionati circa duecento vigneti suddivisi su una superficie di poco più di cento ettari, ma solo due fondi superano le 25
pezze.[7]
Non conosciamo i vitigni dell'epoca e i sanseveresi non sono ancora i provetti viticoltori di oggi, così noti anche fuori della Capitanata, ma i sistemi di vinificazione e conservazione del vino rimangono a lungo rudimentali e ciò determina una scarsa qualità del prodotto, come si apprende da una pubblicazione del canonico Gaetano De
Lucretiis.[8]
Le premesse ci sono, ma manca l'esperienza e dobbiamo attendere più di un secolo perché l'attività enologica a San Severo possa migliorare ed espandersi.
L'800 è il secolo dei grandi cambiamenti, a partire dall'occupazione francese del Regno di Napoli (1806-1815), durante la quale vengono emanate leggi
importantissime, come l'eversione della feudalità e l'istituzione dei Comuni, come oggi li conosciamo, che ci liberano dai tanti vincoli che ostacolavano lo sviluppo
dell'economia locale. Dopo l'abolizione della Dogana delle
Pecore, che soprintendeva a tutto il sistema di tratturi, di
"locazioni" e di "poste", si rendono disponibili le
grandi estensioni di terre del Tavoliere. Nella concessione di questi fondi usufruiscono del diritto di prelazione i proprietari di greggi che da tempo inviano dal Molise e dall'Abruzzo i loro animali a svernare nei pascoli di Capitanata e per tale motivo non assistiamo a sostanziali cambiamenti fino alla seconda metà del XIX secolo. Con il declino della pastorizia transumante, molte
"poste" vengono trasformate in masserie e i terreni messi a coltura.
Ricordiamo, inoltre, la soppressione di una buona parte dei ricchi ordini monastici, detentori di vasti possedimenti terrieri che vengono ceduti per lo più alle poche famiglie agiate che dispongono dei capitali necessari; ma, anche se
alcuni di questi tenimenti vengono successivamente suddivisi e rivenduti, permane la difficoltà a reperire appezzamenti da trasformare in vigneti. Una maggiore
disponibilità di terre, in lotti più piccoli, si ha dopo il 1866 per la vendita dei fondi degli ultimi enti ecclesiastici e ne usufruiscono in particolare gli stessi contadini che da tempo li tengono in fitto. Tutto ciò determina una lenta ma costante diffusione di colture alternative a quella del grano, particolarmente nei dintorni della città, perchè l'inconsistenza della viabilità rurale rende quasi impossibile raggiungere le campagne per lunghi periodi dell'anno. Solo con la sistemazione della rete
stradale[9] e la costruzione della ferrovia adriatica, si aprono nuove prospettive per
l'esportazione dei nostri prodotti verso le regioni
settentrionali.
Capitolo II
L'espansione dei vigneti a S. Severo nell'800
L'avventura del vino sanseverese inizia in conseguenza di un avvenimento drammatico che colpisce l'economia della Francia, la nazione che già nell'ottocento detiene il primato nella produzione e commercializzazione dei vini. L'importazione di viti selvatiche dall'America determina, purtroppo, anche l'introduzione in Europa di parassiti che causano nuove malattie delle piante, come l'oidio, che viene poi curata con lo zolfo; ma è la fillossera, che si diffonde agli inizi degli anni '60, a devastare i vigneti francesi. Per molti anni non si trova un rimedio efficace e i commercianti francesi, per non perdere la loro clientela, sono costretti ad importare vini da altre nazioni, come la Spagna, la Grecia e l'Italia. Già con il trattato commerciale italo-francese del 1863 aumentano le nostre esportazioni vinicole, ma solo dopo qualche anno si assiste ad un notevole incremento di vigne a San Severo. Il passaggio dal pascolo e dalle colture cerealicole ai vigneti inizia invece in grande stile a Cerignola già nel 1864, quando la
famiglia Pavoncelli realizza per esperimento sessanta ettari di vigneti
"alla latina"; poi concede in miglioria circa 2500 ettari a contadini del barese, detti
versuriesi, con contratti della durata massima di trent'anni. Nel 1893, sempre a Cerignola, il duca de La Rochefoucauld impianta 3000 ettari di vigneti. Questi grandi tenimenti giungono fino a Posta S. Cassiano, determinando lo sviluppo del nuovo centro di S. Ferdinando di Puglia, mentre le uve vengono lavorate in stabilimenti vinicoli situati direttamente nelle aziende agricole, come Torre Giulia e Torre Quarto, che producono in prevalenza vini rossi e
rosati.[10]
A San Severo la situazione è completamente diversa, perchè i grandi
proprietari terrieri dimostrano uno scarso spirito imprenditoriale e preferiscono
continuare a piantare grano, un'attività molto meno impegnativa; i piccoli agricoltori mancano invece di mezzi economici per la realizzazione di nuovi vigneti, che
diventano produttivi solo dopo circa tre anni, e spesso sono costretti ad indebitarsi. La nostra viticoltura non raggiungerà mai aspetti estensivi come a Cerignola, ma col tempo si forma a San Severo una classe di piccoli e medi proprietari terrieri che dispongono di una propria cantina, che diviene così numerosa da non avere raffronti in tutta la Capitanata.
Dal Gervasio[11] apprendiamo che verso il 1871 i nostri vigneti raggiungono una estensione di 1234 ettari, con una produzione che si aggira sui 45.000 ettolitri di vino, dei quali 17.000 sono destinati al consumo interno e il rimanente da
commercializzare nei centri vicini.[12] Anche il De Ambrosio, qualche anno dopo, riporta all'incirca gli stessi dati[13], ma la qualità del prodotto continua ad essere scadente, sia per qualità che per gradazione.
I vigneti si estendono sempre più, per la prospettiva di grossi guadagni, e dopo una decina di anni superano già i 1700 ettari, ma i nuovi e spesso
improvvisati viticoltori-vinificatori sono scarsamente istruiti e per lo più privi anche delle nozioni tecniche di base, così a spese del Comune vengono fatte pubblicare dal sindaco Filippo d'Alfonso le lezioni di enologia tenute nella nostra città
nell'agosto del 1881 dal prof. Giuseppe Frojo.[14]
In queste conferenze il relatore fa presente innanzitutto come sia errato il nostro sistema di impiantare tante varietà di uve in uno stesso vigneto, il che rende difficile la commercializzazione di vini che per ogni annata presentano caratteristiche diverse; inoltre, fa notare di aver trovato in San Severo cantine inadeguate e botti mal costruite. Suggerisce poi i metodi corretti di vinificazione e di conservazione del vino e trova lodevole l'iniziativa del municipio di promuovere l'impianto di una Cantina Sperimentale, che verrà realizzata l'anno successivo a spese della Provincia.
Al comune di San Severo viene concesso anche un aiuto finanziario per quattro anni, a condizione che detta Cantina si presti alla confezione di vini con uve provenienti da località diverse della Capitanata, adottando metodi scientifici di vinificazione, e che pubblichi in un bollettino i risultati
ottenuti.[15]
La nostra Cantina Sperimentale, derivata da quella già esistente a Barletta, è diretta da Domenico Frojo e viene istallata nei locali del soppresso convento dei Cappuccini, dove dal 1884 il vino prodotto si vende al pubblico sia sfuso che
imbottigliato.[16]
In questi anni sono presenti a San Severo varie associazioni di agricoltori, sorte per lo più ad iniziativa di personaggi che le utilizzano per le loro lotte
politiche, spesso con contrapposizioni fra gli interessi dei grandi proprietari terrieri e quelli dei piccoli viticoltori.
Nel frattempo i francesi trovano il sistema di ovviare alla fillossera,
innestando i vitigni locali su nuovi ceppi di viti americane resistenti al parassita, anche se in questo modo importano un'altra malattia delle piante, la peronospora. Nel 1888 viene ricusato l'accordo commerciale tra la Francia e l'Italia e i francesi
introducono disposizioni protezionistiche a sostegno della loro politica economica. La nostra viticoltura subisce così una prima forte crisi; il prezzo del vino ribassa fortemente e nel 1889 si svolgono nella nostra città manifestazioni di braccianti e piccoli agricoltori ridotti alla miseria.
Si cercano nuovi mercati esteri e si arriva ai trattati commerciali del 1892 con
la Svizzera e la Germania, oltre a quello decennale e ben più importante con
l'Austria-Ungheria, dettato anche da ragioni politiche in contrapposizione alla Francia. Segue poi, nel 1895, un accordo tra il governo italiano e quello austro-ungarico con nuove disposizioni che regolano il commercio del vino con dazi ridotti, ma non mancano polemiche, particolarmente da parte ungherese, per le qualità piuttosto scadenti dei vini italiani, mentre i nostri esportatori si lamentano per la meticolosità dei doganieri austriaci alla
frontiera.[17]
A San Severo le esportazioni aumentano anche per le tariffe agevolate del trasporto ferroviario concesse dal governo e riguardano sia i vini rossi, detti di
"mezzo taglio", che i bianchi di gradazione non molto elevata, che diventano ben presto prevalenti. Si produce anche un vino bianco più pregiato, ottenuto dal
Bombino insieme a Malvasia o Mostosa, che alcuni grossi commercianti pubblicizzano nei loro listini internazionali come
Wein weiss von Sansevero e che in parte viene utilizzato in Piemonte come base per la produzione di
vermouth.[18]
Si esporta anche un'uva bianca da tavola, spedita per ferrovia in contenitori di vimini verso la Germania e l'Austria, dove è chiamata
Gold traube (Grappolo d'oro).
Da noi c'è, però, anche il problema della forte produzione di vinaccia e di sottoprodotti della vinificazione, che vengono ceduti a bassissimo prezzo a piccoli distillatori in buona parte originari del napoletano. Ricordiamo che già in una carta topografica del 1883 è indicato un
C. Lambicco su via S. Bernardino, forse quello di Amodio, e che nel 1890 Luigi
Colio ha una distilleria nell'attuale via L. Mucci.
Per ovviare a tale situazione, nel 1891 viene costituita la Società Cooperativa dei
Viticoltori, ad opera di Michele Collo, Filippo La Cecilia e Giuseppe De Lucretiis, e con i finanziamenti della Banca di San Severo si arriva all'istallazione di una moderna distilleria lungo via Principe di Piemonte, l'attuale via Don Minzoni. È una iniziativa che ottiene ben presto ampi consensi per i numerosi ed ottimi prodotti, come un cognac invecchiato per lunghi anni in botti di rovere e il
Casteldrione, un liquore aromatico che vince numerosi premi in Italia e
all'estero.[19]
Già dagli ultimi decenni del XIX secolo i nuovi palazzi dei ricchi
agricoltori presentano invariabilmente uno scantinato vasto come l'intero stabile, anche se non sempre viene destinato prevalentemente all'attività enologica. Un
esempio interessante di adattamento di una struttura preesistente è quello del palazzo settecentesco Del Pozzo, sul corso Vittorio Emanuele II, acquisito nell'800 dalla famiglia Cavalieri; qui, per utilizzare in maniera più razionale la profonda cantina che si sviluppa su due livelli, viene predisposto nel 1897 un ingresso all'angolo di via M. Fraccacreta.
Non mancano in quest'epoca grosse strutture adibite espressamente ad uso enologico. Un esempio lo troviamo nel periodico sanseverese Alba del gennaio del
1899[20], dove compare una offerta di vendita o affitto di una cantina di proprietà di Prospero Fania, situata alla periferia di San Severo, dalla parte di Torremaggiore. Questa cantina è formata da sei vani a pianterreno e nove sotterranei ed è provvista di sette pigiatoi, quattro torchi
"nuovo sistema" e 42 botti per complessive 10.000 cannate, equivalenti ad oltre 1100 ettolitri, una notevole capacità per quest'epoca. Non sappiamo come e quando lo stabile viene ceduto, ma il Fania continua nella sua attività vitivinicola e lo ritroviamo tra i protagonisti delle vicende che
sconvolgono l'economia cittadina agli inizi del nuovo secolo. Probabilmente la sua cantina è la stessa nota successivamente come Damiani, sita lungo l'attuale via Checchia Rispoli, ad angolo con via Carmicelli, e recentemente
demolita.
Capitolo III
La crisi del 1904
Nel luglio del 1900 il sindaco di Foggia comunica al collega di San Severo che nel suo territorio non vi sono stati casi di fillossera, contrariamente alle voci diffuse in quei giorni. In realtà, già da qualche anno questa infezione è presente in Capitanata, anche se in zone ancora limitate, e dovrebbe preoccupare i nostri viticoltori, i quali, fidando nelle rigide misure di prevenzione attuate dalle autorità, rimandano ancora il reimpianto dei vigneti col sistema francese. Per il momento si pensa piuttosto all'aumento del prezzo del vino, determinato dai danni causati in molte zone dalla peronospora.
Intanto, mentre in alcune nazioni, come la Svizzera e la Germania, ai nostri vini vengono preferiti quelli provenienti dalla Spagna, dalla Grecia e dalla Turchia, perché di più alta gradazione, nel 1902 decade il trattato commerciale con
l'Austria-Ungheria. Secondo la tesi austriaca, avendo l'Italia firmato un altro accordo provvisorio, nel quale non sono considerate le clausole di favore precedentemente concesse, deve accettare le nuove disposizioni, che contemplano per le
importazioni dei vini bianchi italiani un minimo di 13 gradi alcolici e il 23 per mille di estratto secco. Gli accordi scadono il 31 dicembre 1903, ma le diminuite
esportazioni determinano forti giacenze di vino invenduto e da noi si teme per la prossima vendemmia, non essendoci in città sufficienti cantine per immagazzinare anche la nuova produzione. Si arriva così alla crisi del 1904, che diviene subito argomento di lotta politica in previsione delle elezioni nazionali per la XXII Legislatura, che si terranno in novembre. Tra i candidati del Collegio di San Severo c'è Raffaele Fraccacreta, il quale imposta la sua propaganda particolarmente in favore dei
piccoli proprietari, i quali non dispongono di attrezzature e di risorse finanziarie per superare questa congiuntura negativa.
Il 13 gennaio viene convocato in sessione straordinaria il consiglio comunale di San Severo, per deliberare su un
"Voto al governo per la rinnovazione del Trattato di Commercio con l'Austria
Ungheria". Qualche giorno dopo il Fraccacreta tiene un acceso discorso in una affollatissima piazza Castello; le autorità temono disordini e inviano un forte contingente di forza pubblica, ma la popolazione
rimane calma.
L'oratore espone la difficile situazione che si prospetta, data l'impossibilità per i nostri vini di rispettare i parametri richiesti dall'Austria, e si chiede dove finiranno i 100.000 ettolitri del nostro vino bianco che venivano esportati ogni anno nei soli mesi fra ottobre e dicembre. La soluzione proposta è quella di indurre il governo austriaco, come quelli della Germania e della Svizzera, ad inserire nei nuovi trattati commerciali con l'Italia un trattamento speciale per i nostri
vini.[21]
I socialisti sanseveresi si dissociano dalle dichiarazioni di Raffaele Fraccacreta e, in un loro comizio del 24 gennaio, Ernesto Mandes e Leone Mucci esprimono l'opinione che l'unica soluzione realistica è quella di sviluppare il commercio del vino con l'abolizione dei dazi interni e di quelli alle frontiere e con altre agevolazioni governative sul costo dei trasporti ferroviari.
Già dall'inizio dell'anno, per iniziativa della Società Cooperativa dei
Viticoltori di San Severo, si è formato un comitato permanente per risolvere la crisi; vi fanno parte oltre cinquanta eminenti cittadini, che troviamo elencati nel primo numero di saggio del giornale « Pro-Sansevero-Organo degli interessi vinicoli pugliesi ».[22]
Il ministro dell'agricoltura, Luigi Rava, e quello delle finanze, Luigi Luzzatti, in attesa di altri provvedimenti, propongono di predisporre a San Severo un grande deposito comunale per immagazzinare il surplus di 120.000 ettolitri di vino che si prevede per la prossima vendemmia e per la cui realizzazione lo stato contribuirà per metà della spesa.
La crisi investe anche altre zone vinicole e il ministro Luttazzi presenta al parlamento delle proposte a favore del settore enologico italiano; si giunge così
all'approvazione della legge n. 377 dell'11 luglio 1904, con la quale viene stanziata la somma di 300.000 lire per aiutare i piccoli produttori nell'acquisto delle botti indispensabili per la conservazione del prodotto e altre 700.000 lire per promuovere la costituzione di cantine sociali, coma già è stato fatto in Francia.
Il 24 settembre viene finalmente approvato un nuovo accordo con l'Austria-Ungheria, che si impegna ad importare 450.000 ettolitri di vino bianco italiano, abbassando il limite della gradazione alcolica a undici e mezzo e quello
dell'estratto secco al ventuno per mille, ma quest'ultimo parametro è ancora troppo alto per noi, poiché i vini sanseveresi raramente superano il diciannove per mille.
In attesa di trovare una soluzione si ritarda l'inizio della vendemmia, ma la situazione diviene drammatica e la giunta comunale sembra impotente davanti a questa crisi. Si sollecita il governo perché invii con urgenza 1400 botti e un buon numero di carri ferroviari provvisti di serbatoi per il trasporto, ma queste richieste vengono esaudite solo
parzialmente[23] e con ritardo, per cui molta uva rimane sulle piante. La maggior parte dei nostri piccoli viticoltori è
abituata a vendere direttamente il prodotto grezzo appena fermentato, perciò manca di recipienti per conservare il vino e per non perdere il prodotto è costretta a cederlo a basso prezzo agli speculatori.
Il prefetto di Foggia, allarmato dalla situazione, ordina al sindaco di San
Severo, Gaetano Croce, di provvedere a reperire locali e attrezzature, per cui
vengono acquistate a spese del comune 150 botti, probabilmente a Barletta, e si mettono a disposizione i locali dell'ex convento di S. Bernardino; ma, le iniziative intraprese non sono sufficienti e la maggior parte del vino si guasta. Il problema non è solo nostro e non rimane altra soluzione per il governo che concedere la distillazione agevolata del prodotto invenduto; purtroppo, questo tipo di provvedimento è solo il primo di una lunga serie che caratterizzerà le crisi future.
A San Severo il deposito vinicolo comunale non viene più attuato e la
delusione per le mancate promesse governative provoca un diffuso malcontento, che si riflette in una fotografia del gennaio 1905 che ci mostra un busto del ministro Luigi Luttazzi modellato con la neve e accompagnato da un cartello
satirico.[24]
Capitolo IV
Il vino a S. Severo fino alla seconda guerra mondiale
Dopo la crisi del 1904 la situazione non migliora, così Antonio Faralla, presidente della Federazione dei Piccoli Viticoltori, nel gennaio del 1908 invita le rappresentanze delle varie associazioni cittadine ad una riunione presso la sede dell'associazione, in largo S. Antonio Abate, per chiedere, tra l'altro, che il governo conceda un impianto di distillazione e che venga attuata una cantina sociale. Ma anche queste richieste rimangono senza esito.
Nei convulsi avvenimenti di questi primi anni del secolo, troviamo qualche notizia sull'esistenza di cantine di una certa entità, come quella di Checchia verso porta Foggia, e dell'attività di commercianti del nord, come i fratelli Corvi, di Lodi, i quali hanno un deposito presso la stazione ferroviaria. Ma il primo stabilimento vinicolo di cui abbiamo notizia diretta è quello di Raffaele Fraccacreta, che compare in alcune fotografie scattate in periodo di vendemmia e che mostrano i carretti che trasportano l'uva nei tipici tinelli, mentre lungo la strada è depositato un gran numero di botti con il marchio R. F. Questa azienda è situata lungo
l'attuale via Checchia Rispoli, nel sito del successivo mulino Casillo.
In questo periodo la fillossera dilaga nel nostro tenimento e costringe gli agricoltori a sostituire i vigneti tradizionali con quelli innestati col sistema francese. Da un punto di vista tecnico non ci sono difficoltà, in quanto dagli inizi del
'900 sono stati costituiti dei consorzi per la difesa della viticoltura, che hanno promosso studi per sperimentare i vari tipi di vitigni; il vero problema sono i costi notevoli, che non tutti possono affrontare, e in alcuni casi intervengono in aiuto i due istituti di credito locali, anche se le loro possibilità sono ormai al limite. Si diffondono così da noi i vigneti a filari e mentre per le uve bianche la preferenza va al Bombino, quelle rosse tradizionali vengono gradatamente sostituite dal Montepulciano, spesso associato al Sangiovese perché di maggiore produttività, anche se la qualità dei suoi vini da noi è meno pregiata.
La
Società
Viticoltori, che ormai conta un centinaio di soci ed è la terza per importanza in Capitanata, nel 1910 distilla 25.550 ettolitri di vino, proveniente dalle eccedenze per le abbondanti vendemmie degli anni precedenti, e oltre 5.300 quintali di vinacce.[25] Purtroppo, una nuova legge impone alle distillerie di
depositare in banca notevoli somme come cauzione per la tassa sui distillati e la nostra cooperativa, già a corto di liquidità per la grande quantità di prodotto immagazzinato, è costretta a ricorrere ad altri fidi presso la locale Banca Popolare. Nel 1911 i dirigenti della Società fanno redigere un inventario completo dei beni dell'azienda, per dimostrare agli azionisti e ai creditori la reale situazione finanziaria; in questo elenco troviamo più di cinquecento fusti, di cui la metà sono botti di rovere destinate all'invecchiamento dei liquori. Per la costruzione e la manutenzione di questi recipienti è stato fatto venire appositamente da Pomigliano D'Arco il bottaio Antonio Terracciano, il quale poi continua l'attività artigianale nella nostra città con i figli Giovanni e
Felice.[26]
Malgrado le crisi ricorrenti, verso il 1910 la superficie coltivata a vigneti supera i 9000 ettari e il basso prezzo dei nostri vini attira i commercianti
forestieri, i quali predispongono magazzini nei pressi della stazione ferroviaria o
allestiscono delle proprie cantine per vinificare le uve acquistate sul posto. Già dalla fine dell'800 sono presenti a San Severo commercianti barlettani, come Emanuele De Feo, i quali dispongono di buoni vini neri ma scarseggiano di bianchi. I nostri prodotti vengono inviati per ferrovia a Barletta, un importante e antico centro vinicolo favorito dalla presenza del porto, dal quale partono i battelli diretti
particolarmente a Trieste, che in quest'epoca è il più importante scalo marittimo dell'impero austriaco.
Da Barletta arrivano anche i costruttori di botti, come i Sernia, Galante, Soricaro, Iacobazzi; sono abili artigiani che svolgono spesso anche un ruolo di mediatori e alcuni finiscono per intraprendere una propria attività vinicola. È interessante notare come questa categoria continui ad adottare per anni le
norme e le tariffe stabilite dalla Lega tra Bottai Barlettani. Della stessa città è anche Giuseppe Sguera, il quale ritira da noi vino bianco per conto della ditta Tauber di Praga; poi si trasferisce a San Severo agli inizi del secolo e lavora in
collaborazione con il De Feo, aprendo successivamente uno stabilimento vicino alla stazione.
Nel frattempo, Raffaele Fraccacreta, divenuto nel 1909 deputato al
Parlamento, riesce ad ottenere molte facilitazioni per lo scalo ferroviario e per treni merci straordinari che trasportano i nostri prodotti verso il nord; si giunge così a spedire fino a 900 ettolitri di vino al giorno.
I trasferimenti dalle cantine verso la ferrovia avvengono a mezzo carretti, che possono trasportare al massimo tre botti alla volta, ed è evidente che la
vicinanza degli stabilimenti alla stazione diventa molto importante; per tale motivo si sviluppa in questa zona un vero e proprio quartiere industriale. Lo stesso
Fraccacreta costruisce verso il 1912 un grosso stabilimento in via Principe di Piemonte
(odierna via Don Minzoni), mentre la ditta Folonari di Brescia si è già insediata sulla strada vicinale Principato, subito al di là della ferrovia, con un binario di raccordo per i propri vagoni
cisterna.[27]
Non tutti trasferiscono la propria attività presso la stazione e ricordiamo, tra gli altri, Alfonso La Cecilia, il quale ha esposto vini e spumanti alla mostra
campionaria di Roma del 1909 e continua a lavorare in via S. Bernardino, accanto alla distilleria di Giuseppe Amodio.
Ormai, anche i piccoli viticoltori comprendono che non possono
continuare a svendere le uve agli stabilimenti e ai commercianti, così provvedono ad allestire delle proprie cantine, situate per lo più sotto casa. Le attrezzature sono ridotte all'essenziale e consistono in un pigiatoio di legno (palmento) montato su cavalletti, un torchio a mano, botti di modeste dimensioni, qualche tino e pochi altri accessori; ciò rende possibile immagazzinare il vino ed attendere il momento più propizio per la
vendita.[28]
Questi locali, caratterizzati da un vano a pianterreno e da uno scantinato sottostante, spesso ricavato ex novo sotto edifici ottocenteschi, si diffondono a centinaia in tutta la città e rappresentano una
peculiarità che distingue San Severo dagli altri centri vinicoli
pugliesi.[29]
Ma, anche le cantine più grandi non dispongono ancora di energia elettrica e la lavorazione rimane quella tradizionale.
Questo particolare momento dell'enologia sanseverese subisce una drastica contrazione a partire dal 1914, per lo scoppio della prima guerra mondiale. Non sono solamente gli avvenimenti bellici a determinare una nuova crisi nella nostra economia, ma è la disfatta di quelle nazioni che hanno rappresentato per lungo tempo la nostra migliore clientela a far precipitare le esportazioni di vino. Le
conseguenze non tardano a farsi sentire e già agli inizi della guerra chiude la distilleria della società Santolini-Compagnone, sulla strada per S. Marco in Lamis, di fianco all'odierno campo sportivo.
Numerose notizie sul dopoguerra le ricaviamo dall'Annuario Vinicolo
Italiano edito nel 1922[30], nel quale è riportata per San Severo una lista di 81
nominativi riguardanti attività varie nel campo vinicolo. Inoltre, vi troviamo un elenco
specifico di produttori-esportatori di vino[31]
ed un altro di mediatori.[32]
Dai dati esposti non si può dedurre l'effettivo peso in questo periodo del comparto enologico sull'economia sanseverese, ma gli inserti pubblicitari inseriti nel volume indicano come diversi commercianti esportano sia il vino che l'olio d'oliva. Una specialità locale sono
i "filtrati dolci bianchi", pubblicizzati da Orazio Gentile; Alfonso Mancini (con stabilimento in via Torremaggiore); Giovanni Pennacchia e, particolarmente, da Luigi Checola, il quale li produce in un
"Grande stabilimento moderno elettrico".
Dopo il 1922, chiude il deposito al n. 35 del viale della Stazione di
Sebastiano Visaggio, commerciante in "uva, mosto, vini, olive fresche e prodotti del suolo. Specialità vini bianchi verdolini e color carta. Rosso, tipo Montepulciano e
Sansevero". Cessa anche l'attività dello stabilimento della ditta svizzera Eggiman & C., sito nei pressi dello scalo merci della ferrovia; mentre non disponiamo di dati su altri commercianti forestieri, come Pietro Longo (di Milano?), il quale aveva un magazzino nella zona del palazzo Giancola, accanto alla stazione.
Intanto, Raffaele Fraccacreta si trasferisce a Roma e vende il suo
stabilimento ai Fratelli Fossati, della provincia di Verona, ma anche questa ditta cessa ben presto la sua attività. In questo periodo burrascoso ricordiamo un cambio di gestione per una cantina già di Gervasio e poi di Carlo Russo, sita all'angolo di via Galvani con via Pacinotti, che passa verso il 1924 a Gioacchino Aquilano, il quale riesce a superare i momenti più critici. Abbiamo, però, anche notizia di vini di qualità, come quelli imbottigliati dai fratelli Alfredo e Luigi D'Alfonso e offerti al principe Umberto di Savoia in occasione della sua venuta a San Severo nel 1923, per
l'inaugurazione dell'edificio scolastico presso la villa comunale.
Successivamente, il mutato clima politico favorisce le nostre esportazioni verso la Germania e la situazione generale tende un po' a migliorare. Così vediamo come Michele Florio, il quale già nel 1922 risulta produttore, nel 1927 imbottiglia vino Montepulciano e filtrato dolce nella sua cantina di via Calabria.
A sua volta, Michele Rizzi, che spediva uva da tavola verso il nord e aveva lavorato con Eggiman, incrementa la sua attività ampliando nel
1928 lo stabilimento sull'attuale via Don Minzoni. Per conto di Rizzi, il bottaio Alessandro Sernia costruisce poi dieci grandi botti, della capacità di centinaia di ettolitri, ricavate sul posto da tronchi di rovere fatti venire appositamente dalla Slovenia e imbarcate al porto di Pola.
Per rilanciare i nostri vini sui mercati italiani e stranieri, viene riaperta nel 1930 a San Severo la Cantina Sperimentale, come sezione staccata di quella di Barletta. Questo ente, diretto dall'enotecnico Ugo Stramezza, è aperto al pubblico ed è provvisto di un laboratorio di analisi abilitato al rilascio di certificazioni valide per le transazioni commerciali. La nostra cantina sperimentale arriva a produrre in un anno fino a cento ettolitri di ottimo vino, che ottiene attestati e premi in mostre e concorsi anche all'estero, e persegue una attività scientifica e promozionale che porta nel 1932 al riconoscimento del vino tipico
"San Severo bianco", ai sensi della Legge 10/7/1930 n. 1164.[33]
In questo periodo chiude, purtroppo, la gloriosa Società
dei
Viticoltori e la città non solo perde una rilevante attività economica, ma soprattutto una distilleria che tanta parte ha avuto nella salvaguardia del nostro settore vinicolo. Rimangono tanti piccoli distillatori, in gran parte originari di S. Antimo, nel napoletano,
coadiuvati da raccoglitori di vinaccia, feccia e altri sottoprodotti della vinificazione.
Una importante iniziativa è invece la costituzione, nel settembre del 1932, della
"Società Civile per Azioni Anonima tra Viticoltori Produttori Vini di San
Severo", diretta da Antonio La Monaca e con sede presso la Federazione Agricoltori, in corso Umberto I. Il proposito è quello di aprire uno stabilimento vinicolo in
concorrenza con quelli dei commercianti, che tendono a tenere bassi i prezzi delle uve e dei vini; ma gli inizi
non sono facili e per la prima vendemmia si è costretti a prendere in fitto varie cantine, con una produzione di 7000 ettolitri di vino, parzialmente venduti l'anno successivo a Giovanni Zitoli. Nel 1934 aumenta il numero dei soci e cambia la denominazione in
"Cantina Sociale Cooperativa di San Severo", la prima nel suo genere in Capitanata. L'enologo è Michele Irmici e si vinifica nello stabilimento di Alfonso La Cecilia, su via S. Bernardino, che poi viene acquistato; si utilizzano pigiatrici elettriche e presse idrauliche, che permettono di lavorare circa 300 quintali di uva al
giorno.[34]
In questi anni, Camillo Scaler, di Gressoney Saint Jean (Aosta), il quale
teneva in fitto la cantina Damiani, alla periferia della città verso
Torremaggiore, acquista l'ex stabilimento di Raffaele Fraccacreta, in via Principe di Piemonte (ora via Don Minzoni), che viene poi ampliato dal figlio Stefano e diviene un punto di riferimento per i nostri viticoltori per la serietà e la puntualità
"svizzera" dimostrata nei rapporti commerciali. Altre grossa cantina di quest'epoca è quella del
barlettano Giovanni lacobazzi, che si insedia nei locali dell'ex Società Ing.
Vallecchi-Autolinee del Gargano, in via Galvani, e lavora per conto della ditta Bolla di Verona. Non sappiamo, invece, quando abbia cessato l'attività la cantina e distilleria di Vito Pappalepore, sita all'angolo di via Don Minzoni col viale della Stazione, demolita per far posto alla clinica del dott. Troiano.[35]
Quasi di fronte a Pappalepore c'è Raffaele Nardella, già attivo nel 1922 e del quale conosciamo la pubblicità riguardante i suoi vini bianchi; questa cantina viene acquisita poi da Ernesto Meola, già dipendente di Michele Florio. Anche Raffaele Orlando, originario del beneventano e agente dei Fratelli Pasqua di Verona, nel 1937 apre un suo stabilimento in fondo a via Marsala, da dove è possibile utilizzare la tramvia San Severo- Torremaggiore come collegamento ferroviario con la stazione.
Un'altra attività in fase di espansione è quella di Giuseppe Sguera e del figlio Oronzo; il loro stabilimento si trova in via Pacinotti e confina con una vecchia
distilleria che nel 1939 viene modernizzata dalla Società Italiana Spiriti (S.I.S.), anche questa collegata con la ferrovia.
Tra i tanti commercianti e mediatori ricordiamo Gaetano Sebastiani, agente della ditta Vedova Bini di Castelfranco Emilia, il quale nel 1933 prende in fitto la cantina di Carlo De Lucretiis, sita su via Fortore. Una figura caratteristica di questo periodo è Stefano Stien, un mediatore divenuto anche rappresentante della ditta svizzera Blenk, specializzata nel noleggio di carri ferroviari per il trasporto di vino; Stien si dedica poi anche alla produzione di gassose, sponsorizzate con gare ciclistiche.
Il vino si vende per lo più sfuso ed uno degli spacci più noti è quello di Gioacchino Maghernino coadiuvato dai figli Alfredo e Antonio; quest'ultimo nel 1938 ottiene in una mostra il primo premio per un vino bianco di 15 gradi!
Molte di queste attività rallentano e poi si bloccano dopo il 1940; così chiude l'azienda di Felice Sonoro, con uno stabilimento vinicolo abbinato ad un oleificio (Vinolio) in via Sicilia. Durante il periodo bellico, la Cantina Sociale si dota di un grosso motore a scoppio per azionare parte dei nuovi macchinari; continua invece normalmente la produzione nelle piccole cantine con le attrezzature tradizionali, per le quali non è necessaria l'energia elettrica.
Gli eventi della seconda guerra mondiale toccano marginalmente il nostro territorio, ma per lungo tempo cessa ogni rapporto con le ditte del nord. Verso la fine del 1943 il nostro vino subisce un aumento di prezzo inaspettato, determinato dalla vicinanza del fronte di guerra e dalla interruzione dei trasporti a lunga distanza, che impediscono ai
commercianti dei centri vicini di rifornirsi adeguatamente. Molti nostri viticoltori
tendono a conservare il loro prodotto nella prospettiva di futuri grossi guadagni e alcuni speculatori ne approfittano per introdurre in città vini di scarsa qualità; l'illusione però dura poco e i prezzi
crollano.[36]
Gli stabilimenti vinicoli stentano a riprendere il lavoro per la scarsità di energia elettrica ed Ernesto Meola si ingegna a collegare una pigiatrice ad una
locomobile a vapore del tipo usato per la trebbiatura; per pressare la vinaccia ci sono invece i torchi idraulici azionati a mano. Lo stesso sistema viene adottato in altri stabilimenti, come quello di Scaler, dove la locomobile viene successivamente
utilizzata per produrre il vapore necessario alla manutenzione delle botti.
Capitolo V
Il secondo dopoguerra
Nel 1945 la guerra è finita, ma siamo ancora lontani da un ritorno alla
normalità e alcuni commercianti più intraprendenti, come il giovane Michele Meola, tentano di riprendere i contatti commerciali con la Campania. In attesa del
ripristino della linea ferroviaria si cominciano ad inviare verso Napoli le botti di vino con i carretti; si costituiscono così delle vere e proprie carovane, sia per utilizzare i cavalli in gruppo per superare le salite più ripide, come quella di Ariano Irpino, che per scoraggiare i malviventi che impongono pedaggi ai commercianti di
passaggio.
Intanto a San Severo si riorganizza la Cantina Sperimentale, diretta dal 1947 dal dott. Ennio Gervasio, e opera per qualche anno una società fra produttori e commercianti di prodotti locali denominata O. C. I. (Organizzazione Commerciale e Industriale), che ha sede nello stabilimento di Oronzo Sguera e della quale fanno parte per il settore vinicolo anche Adelchi Cicerale, Domenico Laudadio, Giovanni lacobazzi e Vincenzo Zitoli. In questo periodo è attiva anche la distilleria di Matteo e Pasquale
Colio, in via Solferino, che però ha una vita piuttosto breve.
Nel 1947, il tenimento dell'Istituto Agrario Michele Di Sangro, che si estende verso la contrada Zamarra, viene suddiviso in 1223 quote assegnate a braccianti agricoli; questi piccoli appezzamenti vengono poi trasformati prevalentemente in vigneti, utilizzando portainnesti selezionati per quel particolare tipo di terreno.
Intanto la Cantina Sociale, che i sanseveresi chiamano "il
Cantinone", aumenta la propria ricettività affittando parte dell'adiacente ex stabilimento di Francesco Presutto, che poi viene incorporato; si progetta anche una distilleria cooperativa, che non viene però attuata, mentre nel 1949 si stabilisce di acquistare un moderno impianto di imbottigliamento.
Fra le tante iniziative che si sviluppano tra gli anni '40 e '50, ricordiamo lo stabilimento di
Roberto Mottola, napoletano, il quale per vinificare l'uva di oltre duecento ettari
di vigneti che la famiglia possiede in contrada Falciglia, si insedia nei pressi del viale della Stazione, non lontano dalle cantine dei fratelli Pennacchia e di Giuseppe Soricaro. Altro caso è quello di Vincenzo Di Troia, il quale dopo aver tenuto in fitto l'ex Vinolio, entra nella società
I.V O. (Industria Vinicola Olearia); la sede, che si trovava sull'attuale viale Matteotti, viene ceduta nel 1954 ai fratelli Fabrizi, commercianti originari di Pratola Peligna.
Ancora per qualche decennio gli impianti di lavorazione rimangono piuttosto sommari, consistendo per lo più in uno o due torchi continui e qualche pressa idraulica; per le uve nere si istallano anche pigiodiraspatrici e sgrondatori, ma la qualità del prodotto non è eccelsa e, con qualche eccezione, i nostri rimangono pur sempre vini da taglio.
Spesso i proprietari di questi stabilimenti, al pari dei numerosi commercianti paesani e forestieri, acquistano il prodotto dei piccoli viticoltori, i
quali però non dispongono di pompe e per travasare il vino dalla loro cantina ai
grandi serbatoi dei compratori intervengono i "brentatori", operai specializzati che prendono il nome dal barile da 50 litri utilizzato per questo lavoro, la brenta (in dialetto
mantegna). Questi brentatori si sono costituiti già prima della guerra in una specie di cooperativa, che poi si è divisa in tre
"compagnie", aderenti ad altrettanti sindacati di diversa connotazione
politica.[37]
Agli inizi degli gli anni '50 il bum economico è ancora lontano e intere famiglie emigrano verso le zone industriali del nord, particolarmente a Milano e Torino. Comincia a scarseggiare la mano d'opera stagionale e nel periodo della vendemmia si spostano a San Severo operai dei paesi vicini, particolarmente del Gargano, che spesso si trasferiscono qui definitivamente.
A questo problema si sopperisce meccanizzando anche le cantine private e si inizia con semplici pigiatrici a rulli o con un tipo di pigiatrice-pressatrice della locale officina Vernola; per spremere le vinacce rimangono i tradizionali grandi torchi a mano, qualche volta sostituiti da presse idrauliche costruite anche da nostri artigiani. Le botti, di difficile e costosa manutenzione, vengono gradatamente sostituite dalle vasche in cemento, raramente in uso prima della guerra e munite dapprima di portelle in legno e poi di quelle metalliche.
Questa opera di rinnovamento inizia con i viticoltori più importanti, i quali dispongono di grandi cantine private affidate ad esperti del mestiere, come i Vezzano, cantinieri di professione; ma, a parte la Cantina Sociale, nessuno stabilimento dispone di un enologo fisso.
Nel frattempo altri imprenditori forestieri si insediano in San Severo, come Giuseppe Gavioli di Bomporto (Modena), il quale nel 1953 acquista l'azienda di Aquilano in via Galvani, e Valente Petternella, di Legnago
(Verona), che qualche anno dopo apre uno stabilimento in via Aspromonte. Di Verona è anche la ditta Bolla, che si insedia in un vecchio deposito già appartenuto a Michele Rizzi, su via S. Bernardino, costituendo la società V.I.S., della quale fanno parte anche i fratelli Fabrizi. Il molisano Andrea Berardo inizia la sua attività nei pressi dell'azienda di Raffaele Orlando in via Marsala, mentre i Di Capua trasferiscono la loro attività di commercianti da Torremaggiore a San Severo, dove costituiscono vari depositi e poi cominciano a vinificare in proprio. Alcune cantine lavorano per conto di forestieri, come quella di Antonio Florio, affittata a Tommaso Alberti di Imola, mentre Antonio Bottino produce vino per Pietro Masucco di Chiavari (Genova), il quale poi lo imbottiglia con la denominazione
"San Severo".
In questa fase di grande espansione del settore enologico, vediamo nascere due nuove importanti entità. La prima è l'Enopolio del Consorzio Agrario, sorto verso il 1955 su via G. Fortunato e diretto dall'enotecnico Leonardo Villotta;
l'altra è la Cooperativa Agricola della Riforma Fondiaria, che si avvia nel 1957 prendendo in fitto varie cantine. Intanto la Cantina Sociale si espande ulteriormente, acquistando dapprima una parte del deposito di Bolla e poi, nel 1958, la cantina di Vincenzo Di Troia, sul lato verso via Garigliano, raggiungendo ben presto una capacità ricettiva di 80.000 quintali di uva.
In questi anni vediamo anche sorgere un'azienda che ottiene ben presto vasti consensi per la qualità dei suoi prodotti. È quella di Ludovico D'Alfonso Del Sordo, che inizia verso il
1957 la sua attività nei locali di un'ex fabbrica di liquirizia, su
corso L. Mucci, imbottigliando quattro diversi tipi di vini che vengono invecchiati in un antico scantinato situato sotto il municipio; una novità per San Severo è la produzione di spumante col metodo Charmat.
Nel 1955 la Cantina Sociale rinnova l'impianto di imbottigliamento, ma in questi anni sono presenti in San Severo anche piccoli imbottigliatori di vini comuni da pasto. Tra i tanti ricordiamo Vincenzo Cassano, Luigi La Cecilia, Ciro Mezzina, Attilio Olivieri, Vincenzo Prattichizzo, Giandomenico Tata, preceduti da una società fra Giovanni Ciannilli, Giovanni Stampanone e Alfredo Tata.
In questa sintetica carrellata sul dopoguerra non possiamo tralasciare alcune attività collaterali a quella enologica, come la raccolta di sottoprodotti della vinificazione (vinaccia, feccia, tartaro, vini guasti e torchiati). Questo lavoro, per il quale si distinguono particolarmente i fratelli Colio, viene svolto per conto di varie piccole distillerie, come quelle di Gabriele, Ceparano, De Blasio e Pedata, che in questo periodo producono solo alcool grezzo, che inviano a Barletta per la raffinazione. La vecchia distilleria Fusco, su via Checchia Rispoli, passa al napoletano Abele Palma ed è la prima a San Severo ad essere corredata da un impianto di
rettificazione.
Capitolo VI
Luci ed ombre
Agli inizi degli anni
'60 le prospettive nel settore vinicolo non appaiono favorevoli, per una stasi del mercato a livello nazionale che determina una notevole giacenza di prodotto invenduto; per agevolare il settore, il governo emana nell'agosto del 1960 un provvedimento per una parziale distillazione agevolata, disposizione che verrà rinnovata successivamente.
Per superare questa emergenza, alcune nostre aziende tendono ad ampliare la loro capienza, come fa la Cantina Sociale, che nel 1962 raggiunge 1250 associati e ritira oltre 200.000 quintali di uva. Anche molti piccoli viticoltori cercano di aumentare la capacità delle loro cantine, ma nel contempo tendono a semplificare il lavoro di vinificazione utilizzando dei veloci torchi continui, che però peggiorano la qualità dei vini.
Una iniziativa particolare è la sperimentazione di un sistema di trasporto su rimorchio di interi carri cisterna tra le cantine e la stazione ferroviaria, appaltato dalla ditta Grassi; ma l'esperimento viene interrotto per il notevole peso ed ingombro dei vagoni.
Verso il 1968 si riesce ad ottenere un notevole finanziamento statale per la costruzione sulla strada per Torremaggiore di una centrale di accantonamento, destinata a stoccare le eccedenze di vino delle cooperative di Puglia, Lucania e Molise, particolarmente per quello destinato alla distillazione
agevolata[38]; ciò allevia in qualche modo la difficile situazione, ma i veri problemi rimangono in buona parte irrisolti. Si cerca anche di promuovere una modernizzazione del settore con i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno, che non sempre, però, vengono
utilizzati correttamente e portano ad una proliferazione di iniziative destinate spesso a durare ben poco.
Un esempio è l'Enopolio dell'Istituto Michele Di Sangro, sorto nel 1963 alla periferia meridionale della città e già in crisi dopo pochi anni. La costituzione di questa nuova cantina non ha altro effetto che quello di costringere i quotisti che hanno in concessione i terreni della Zamarra a pagare in natura il canone,
dirottando così l'uva che prima veniva conferita alla Cantina Sociale e alla cooperativa della Riforma Fondiaria. Quest'ultima, che teneva in fitto la cantina
Pisante in via Perseo, edifica nel 1964 nel piazzale di S. Bernardino un proprio stabilimento, con una capacità iniziale di quasi 30.000 ettolitri. L'anno successivo, le strutture della Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise, e quelle dei Consorzi
Agrari provinciali, con Decreto ministeriale dell'8 giugno 1965 vengono autorizzate ad attuare l'ammasso volontario di vini non superiori a
10° alcolici e idonei alla distillazione agevolata. Il provvedimento tende a togliere dal mercato i prodotti più scadenti, ma non è con questi decreti-tampone che si inducono i viticoltori a produrre meno uva e di migliore qualità.
In questi anni non mancano nuove iniziative, come quella di Aldo Pugliese, il quale prende in fitto la cantina dei fratelli Pennacchia, sul viale della Stazione, ed imbottiglia con l'etichetta
"Fattoria Pira". I vini prodotti nella cantina di Salvatore Gagliardi vengono commercializzati sotto la denominazione di
"Cinelli Irma", mentre i fratelli Giuseppe ed Italo Sguera provano ad imbottigliare anche vini bianchi frizzanti.
Alcuni stabilimenti vengono ampliati, come quello di Vincenzo Zitoli, in via Marconi, mentre Vincenzo Di Troia si trasferisce dietro il campo sportivo, nei locali dove Vittorio Farolfi lavorava i sottoprodotti vinicoli, e trasforma i vecchi capannoni in uno stabilimento vinicolo, istallando tra l'altro sei contenitori metallici da 3500 ettolitri l'uno, una novità per San Severo.
Sorgono anche nuove cantine, come quelle di Giovanni Ciannilli, su corso G. Di Vittorio; Antonio Rotondo, su corso L. Mucci; Michele Meola, su via G. Marconi; Michele Laudaddio, in via Celenza, e tante altre. Intanto a Torremaggiore viene costituita la Cooperativa Agricola Fortore, che immagazzina ingenti quantitativi di uve che prima venivano portate a San Severo.
Con tutte queste nuove attività, il problema delle giacenze di vino si inverte nelle annate di scarso raccolto, come per la gelata del 1969, e alcune aziende che imbottigliano, come la Cantina Sociale, si trovano in serie difficoltà.
Gli anni '60 si concludono con una tappa importante per la nostra economia:
È il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata del vino
"San Severo bianco, rosso o rosato", ottenuto col decreto del Presidente della Repubblica del 19 aprile 1968. Tra i migliori vini D.O.C. prodotti nel nostro territorio ci sono quelli dell'azienda D'Alfonso Del Sordo, che in questo periodo passa in gestione da Ludovico al fratello Antonio.
Durante il corso dei successivi anni '70 le cooperative attirano sempre più i piccoli viticoltori, particolarmente per gli acconti che vengono versati ai soci al momento del conferimento delle uve, e ciò comporta l'abbandono di centinaia di cantine private. C'è anche da osservare che molti agricoltori hanno trasformato i vigneti a filari in tendoni per la produzione di uva Regina, vinificando solo occasionalmente l'uva da tavola invenduta. In questo periodo le aziende viticole del nostro territorio sono oltre
4.000.[39]
A cura del Comune di San Severo viene anche istituito un mercato
settimanale del vino, con recapito presso l'Hotel Dauno, in via Carso, dove si incontrano commercianti, mediatori e produttori; è una buona iniziativa, ma non dura a lungo.
Mentre si riduce progressivamente il numero degli stabilimenti vinicoli, alcune aziende, come quella di Scaler, sostituiscono i vecchi macchinari con attrezzature più moderne, come i torchi orizzontali Vaslin; altre si dedicano quasi unicamente alla produzione di mosti muti, ottenuti anche da uve di basso contenuto zuccherino e da scarti di uva da tavola e che vengono venduti a basso prezzo ad aziende del nord Italia. Questa evoluzione del settore enologico si accentua dopo l'esperienza negativa della distillazione agevolata del surplus del 1974, quando sono stati prodotti oltre 800.000 ettolitri di vino, quasi il doppio della produzione media di questi anni.
Ormai quasi tutte le aziende forestiere hanno abbandonato San Severo, come
Folonari, il cui stabilimento viene dato in fitto ad Aldo Pugliese. Si incrementa invece la società di Emilio e Antonio Di Capua, che si istalla nel 1973 nei locali del fallito Enopolio dell'Istituto M. Di Sangro e poi acquista lo stabilimento di Vincenzo Di Troia, della capacità di 30.000 ettolitri.
In questo periodo si trasferisce nella tenuta di Coppanetta, in contrada S. Antonino, la cantina di Antonio D'Alfonso Del Sordo; è il primo esempio per San Severo di una azienda vinicola sita nell'ambito dei suoi vigneti, che in questo caso si estendono per circa ottanta ettari. Altra iniziativa simile è quella di Nicola Antonacci, il quale fa edificare in contrada Giacchesio uno stabilimento per vinificare le uve prodotte dall'azienda Vitinova.
Dopo l'annata negativa del 1977, alcuni soci dissidenti della Cantina Sociale fondano nell'anno successivo un'altra cooperativa, con sede nell'ex Enopolio dell'Istituto M. Di Sangro. Con la denominazione di Società Cooperativa Torretta Zamarra, la nuova azienda subito si espande, ma dopo qualche anno deve superare delle serie difficoltà finanziarie; poi si riprende e negli anni '80 si dota di nuove attrezzature e triplica la sua capienza. La stessa politica viene seguita anche dalla Cantina Sociale e dalla Cooperativa Agricola della Riforma Fondiaria. È la conseguenza del vuoto determinato dalla scomparsa di tanti stabilimenti, come l'Enopolio del Consorzio Agrario, che cessa la sua attività nel 1980, mentre l'anno successivo chiude anche Scaler, la più nota delle grosse cantine di San Severo.
La situazione rimane pressoché invariata per gli anni successivi, contraddistinti dai continui ampliamenti delle cooperative, che istallano grandi serbatoi metallici, anche refrigerati, che presentano il vantaggio di occupare uno spazio limitato. Ma, le spese per le attrezzature e le tecnologie sempre più sofisticate determinano forti indebitamenti che, aggiunti a vecchi problemi, causano verso il 1994 la chiusura della Cooperativa della Riforma Fondiaria; altri operatori del settore ne seguono la sorte o sono costretti a ridimensionare l'attività. Non è un caso, perciò, se proprio in questi anni la Cantina Sociale Cooperativa viene pubblicizzata come L'Antica Cantina; in effetti è la più vecchia azienda vinicola sanseverese ancora esistente.
In questo ultimo scorcio del secolo arriva il più recente riconoscimento per
i nostri vini di qualità; è l'attribuzione dell'Indicazione Geografica Tipica
(I.G.T.) "Daunia', con Decreto del Ministero delle Risorse Agricole
del 20 luglio 1996.
Siamo ormai alla fine di questo rapido excursus sull'enologia a San Severo tra
l' '800 e il 900 e non possiamo chiudere l'argomento senza esprimere alcune considerazioni sul futuro della più importante attività economica della nostra città.
Se ancora oggi alcune ditte seguitano ad acquistare le nostre uve a basso prezzo e a produrre grandi quantità di vini da spedire al nord, il motivo è da ricercarsi anche in quelle aziende agricole dove si continuano a coltivare vitigni ad alta resa ma di scarsa qualità. I nostri agricoltori non vengono sufficientemente incentivati a cambiare metodo, ma dovrebbero anche ricordarsi dei sacrifici dei loro antenati, costretti agli inizi del secolo scorso a rinnovare i vigneti distrutti dalla fillossera.
Negli ultimi anni qualcosa però è cambiata in meglio anche nelle stesse cooperative, che pur essendo costrette a ritirare uve di diverse provenienze, operano ora una maggiore selezione e utilizzando nuove tecniche enologiche riescono a produrre vini di sempre migliore qualità.
Nel contempo, un rinnovato interesse a livello nazionale verso il buon vino, ha determinato anche da noi la formazione di associazioni, come la Daunia Enoica, che promuovono una maggiore conoscenza di questa bevanda, organizzando corsi di degustazione e concorsi per le produzioni amatoriali. Ciò ha portato molti consumatori ad affinare i gusti e a cercare prodotti di pregio; sono sorte di conseguenza nuove iniziative per ottenere vini e spumanti di qualità[40], partendo da vigneti specializzati.
È forse solo un inizio, ma fa ben sperare per il futuro.

Vittorio
Russi
LA
CAPITANATA
Rivista semestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia
numero 27 - giugno 2012 pagg. 25-50
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